Le nebulose planetarie sono nubi di gas ionizzato (cioè composto da atomi a cui sono stati strappati uno o più elettroni) che circondano ciò che rimane di una stella di piccola massa – minore di circa 8 masse solari – giunta alla fine della propria vita. La prima nebulosa planetaria venne scoperta da Charles Messier nel 1764 ed è oggi chiamata M27. Il termine “nebulosa planetaria” venne coniato pochi anni dopo da William Herschel, che le chiamò così perché, osservate con i telescopi dell’epoca, mostravano un aspetto tondeggiante simile a quello dei pianeti del Sistema solare. Malgrado il nome, quindi, le nebulose planetarie non hanno niente a che fare con i pianeti.
La formazione di una nebulosa planetaria segna la fine della vita delle stelle di piccola massa. Nelle fasi immediatamente precedenti alla formazione della nebulosa planetaria, queste stelle espellono gran parte dei loro strati esterni (fase Agb) che vanno a costituire una nube di gas e polveri che circonda la stella. Man mano che la stella perde i suoi strati esterni, i suoi strati interni, molto più caldi, cominciano a essere esposti. Non appena lo strato esposto è sufficientemente caldo il gas della nube viene ionizzato, evento che segna la nascita della nebulosa planetaria.
Lo studio delle nebulose planetarie ha una doppia importanza. Prima di tutto, esse rappresentano un laboratorio unico dove studiare il comportamento della materia ionizzata (detta anche plasma) sottoposta a campi magnetici. Secondo, esse ci consentono di studiare dal punto di vista chimico la materia espulsa dalla stella nelle ultime fasi della propria vita. Questa materia, avendo subito reazioni di fusione nucleare in miliardi di anni all’interno della stella, è ricca di elementi pesanti come carbonio, azoto e ossigeno. Venendo dispersa nel mezzo interstellare, questa costituirà i mattoni fondamentali con i quali saranno costruiti nuove stelle e pianeti.
Studi in corso e domande aperte
Un primo grande interrogativo sulle nebulose planetarie è che non è noto esattamente quante ce ne siano nella nostra galassia. I modelli teorici prevedono che il loro numero sia circa 20mila, ma ad oggi ne sono state osservate solo poco più di 3000. Il motivo di tale discrepanza risiede verosimilmente nel fatto che le nebulose planetarie sono difficili da osservare. Prima di tutto sono oggetti intrinsecamente deboli, secondo la maggior parte di esse giace sul piano galattico dove la presenza di grosse nubi di polvere tra noi e loro finisce per oscurarne la luce. Recentemente sono stati compiuti notevoli progressi nella loro ricerca utilizzando telescopi sensibili all’infrarosso e al radio, radiazioni che riescono a penetrare facilmente le nubi di polvere e a rivelarci cosa è nascosto dietro, e che affiancano i telescopi ottici in questa ricerca.
Un’altra questione aperta riguarda la forma delle nebulose planetarie. Durante la fase Agb la stella espelle i propri strati esterni allo stesso modo in tutte le direzioni, e la nube che ne risulta è approssimativamente sferica. Di contro le forme delle nebulose planetarie sono le più varie, da ellittiche a bipolari (simili a farfalle). È chiaro che esiste un meccanismo che, agendo tra la fase Agb e la nebulosa planetaria, rompe la simmetria sferica della nube. Questo meccanismo è ancora oggetto di studi. Tra le ipotesi proposte ci sono l’interazione del gas ionizzato con il campo magnetico stellare oppure l’interazione della nube di gas e polvere con un’eventuale stella compagna.
Il coinvolgimento dell’Istituto nazionale di astrofisica
Molti gruppi dell’Inaf utilizzano, per lo studio delle nebulose planetarie, dati ottici, infrarossi e radio ottenuti da moderni telescopi. Un deciso passo in avanti sarà compiuto grazie all’avvento di futuri telescopi come Jwst, Elt e Ska, nei quali l’Inaf ricopre una parte di primo livello sia dal punto di vista scientifico che tecnologico.
Adriano Ingallinera (INAF-Osservatorio Astrofisico di Catania)
Fonte: Media Inaf