Seleziona una pagina

Quarantasette blazar. Vale a dire, quarantasette buchi neri supermassicci iperattivi – detti anche quasar – il cui violento getto d’energia e materia punta dritto verso di noi. Così da consentire agli astronomi di apprezzarne appieno la potenza. È ciò che fanno dal 2004 i radioastronomi di due stazioni osservative dell’Istituto nazionale di astrofisica, quella di Medicina, nella bassa Padana, e quella di Noto, in Sicilia: da oltre vent’anni, ogni mese, orientano le loro antenne – sintonizzate su quattro precise frequenze: 5, 8, 24 e 43 GHz – verso 47 blazar. E si mettono in ascolto.

I segnali che hanno raccolto nel corso di questo lungo programma osservativo – al quale hanno dato il nome Robin, acronimo di Radio Observations of Blazars with Inaf telescopes – hanno già superato quota ventimila: un ricco database di misure di densità di flusso, accessibile a chiunque ne faccia richiesta, presentato ieri su Astronomy & Astrophysics in un articolo guidato da Nicola Marchili dell’Inaf di Bologna, coordinatore del programma Robin.

Nicola Marchili, ricercatore all’Inaf di Bologna, primo autore dell’articolo pubblicato su A&A. Crediti: Riccardo Bonuccelli/Inaf

Marchili, quanti sono i blazar oggi noti? E perché voi vi siete concentrati proprio su questi 47?

«Il BzCat, che è il più noto dei cataloghi di blazar, ne conta più di 3500. Una parte di queste sorgenti non sarebbe osservabile mediante i radiotelescopi Inaf, per via delle loro coordinate celesti, o per la loro scarsa luminosità. Per i rimanenti, abbiamo dovuto fare una selezione compatibile con il tempo osservativo a nostra disposizione. I 47 oggetti attualmente monitorati sono tra i più attivi e i più studiati, il che ci permette di integrare i dati con quelli di altri osservatori sparsi nel mondo e di complementare i risultati delle nostre analisi con quelli disponibili in letteratura, per ottenere una comprensione più approfondita dei meccanismi di emissione che operano in queste straordinarie sorgenti»

Ce n’è qualcuno particolarmente degno di nota?

«Quasi tutti gli oggetti che monitoriamo sono speciali. Per Oj 287, ad esempio, sono state riportate evidenze di una periodicità in banda ottica che potrebbe indicare un sistema binario di buchi neri supermassicci. Txs 0506+056 è celebre per essere il primo blazar a cui sia stata associata la rilevazione di un neutrino ad alta energia, con conseguenze importantissime per i modelli d’emissione».

Veniamo alle due antenne che avete usato, Medicina e Noto. Due parabole pressoché identiche, da 32 metri di diametro ciascuna. Perché ne avete usate due?

«Le due antenne operano in ambienti molto diversi, e anche le strumentazioni di cui dispongono sono in certa misura complementari. L’antenna di Medicina, ad esempio, è fortemente affetta da Rfi  (interferenze elettromagnetiche in banda radio), che alla frequenza di 5 GHz rende le osservazioni delle nostre sorgenti impossibili, mentre a Noto la situazione è migliore. L’antenna di Noto, inoltre, nei primi anni di attività del programma era l’unica a disporre di superficie attiva, e perciò l’unica che potesse eseguire osservazioni a 43 GHz. Questo ha suggerito di suddividere le osservazioni tra i due radiotelescopi in base alla frequenza».

Come mai non avete usato anche la grande parabola da 64 metri di Srt, il Sardinia Radio Telescope, anch’essa dell’Inaf?

«Il programma Robin è nato quando Srt ancora non esisteva. La parabola da 64 metri è stata comunque utilizzata in più occasioni, quando le antenne di Medicina e Noto non erano disponibili per via di lavori di manutenzione straordinaria, ma i ricevitori disponibili a Srt non coprono esattamente le stesse bande osservative offerte da Medicina e Noto, quindi un ipotetico trasferimento del progetto non sarebbe auspicabile. Oltretutto, le due antenne “piccole” fanno benissimo il loro mestiere, e per oggetti luminosi come quelli da noi monitorati forniscono dati di ottima qualità».

Quale può essere l’utilità scientifica di un database come il vostro?

«La variabilità è una delle caratteristiche più impressionanti dei blazar, oggetti capaci di moltiplicare la loro emissione anche di un fattore dieci o più nel giro di settimane o mesi, e su un vastissimo intervallo di frequenze dello spettro elettromagnetico. Una simile variabilità è possibile soltanto se l’emissione giunge da una regione compatta a sufficienza da permettere che le proprietà del plasma varino coerentemente al suo interno. Perciò le caratteristiche di variabilità si traducono direttamente in proprietà spaziali della regione d’emissione, e ci permettono di stabilire come si propagano le perturbazioni che sorgono al suo interno. Ma per poter tracciare con sufficiente sicurezza le variazioni di densità di flusso di una sorgente (quelle che misuriamo con i radiotelescopi) è necessario monitorarla con regolarità per periodi di tempo lunghi rispetto ai tempi caratteristici della variabilità: un database che contenga vent’anni di dati è in questo senso molto prezioso, oltre a essere estremamente raro».

La parabola da 32 metri del radiotelescopio di Medicina (BO). Crediti: Riccardo Bonuccelli/Inaf

Un database che nell’articolo pubblicato ieri, come sottolineate nelle conclusioni, vi siete limitati a presentare e descrivere, senza proporre alcuna analisi delle misure che avete raccolto. Perché?

«Uno degli interrogativi che ci siamo posti nello scrivere questo articolo è quale fosse il modo giusto di valorizzare una tale straordinaria mole di dati e tutto il lavoro che c’era alle sue spalle. Aggiungere l’analisi e l’interpretazione dei dati a questo articolo, non solo ne avrebbe moltiplicato la lunghezza e la complessità, ma avrebbe finito per mettere in secondo piano l’acquisizione e la calibrazione dei dati, e l’enorme mole di lavoro che è stata fatta per ottenerli. Analisi e interpretazione, ovviamente, sono già in calendario come prossima tappa del progetto, ma la pubblicazione dei dati merita un capitolo a sé stante. Direi che c’è un messaggio implicito in questa scelta, e sta nel fatto che i dati, lungi dall’essere un mero punto di passaggio per l’elaborazione di modelli, sono essi stessi già un risultato, essenziale, e che dalla loro qualità, che dipende dalla qualità degli strumenti d’osservazione e dei metodi di calibrazione, dipende in tutto e per tutto la validità dei risultati delle nostre ricerche. Rendere pubblici i dati è un servizio all’intera comunità astronomica, un servizio fruttuoso, che permette a gruppi diversi di svolgere la propria analisi e trarne le proprie conclusioni in maniera indipendente. Il confronto che nasce da interpretazioni che possono divergere è il fondamento del progresso scientifico».

Fonte: Media INAF

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Twenty years of blazar monitoring with the INAF radio telescopes”, di N. Marchili, S. Righini, M. Giroletti, C.M. Raiteri, R. P. Giri, M.I. Carnerero, M. Villata, U. Bach, P. Cassaro, E. Liuzzo, C. S. Buemi, P. Leto, C. Trigilio, G. Umana, M. Bonato, B. Patricelli e A. Stamerra