Già la macchia aveva fatto scalpore: era a forma di cuore. Ma a renderla unica è proprio ciò che le conferiva quella forma: il lungo “baffo” di plasma – più precisamente, un flux rope, un filamento d’estensione superiore al diametro della Terra – che divideva i “lobi” del “cuore” mostra infatti caratteristiche fisiche mai osservate prima. Ad accorgersene, avvalendosi dei dati del Solar Dynamics Observatory (Sdo) della Nasa e delle immagini in H-alpha raccolte con la barra equatoriale dell’Osservatorio astrofisico dell’Inaf di Catania, un team di ricercatori formato da Salvo Guglielmino e Francesca Zuccarello dell’Università di Catania e da Paolo Romano dell’Inaf di Catania.
La macchia di cui parliamo è una grande macchia solare – 4,11 volte le dimensioni della Terra – comparsa nell’aprile 2016 all’interno della regione attiva Ar2529 (o Noaa 12529, adottando la nomenclatura della National Oceanic and Atmospheric Administration degli Stati Uniti). E le caratteristiche inedite della struttura di plasma che dà origine alla forma a cuore – confermate da osservazioni simultanee con il satellite giapponese Hinode – riguardano la polarità del campo magnetico, opposta a quella dell’ombra della macchia solare ospite, e la sua intensità, superiore a quella della penombra adiacente. I risultati dello studio sono in corso di pubblicazione su Astrophysical Journal Letters.
Guglielmino, partiamo da queste strutture che avete osservato: filamenti, ombre, penombre… cosa sono?
«Il Sole è l’unica stella (per adesso…) della quale riusciamo a osservare i dettagli della superficie. Le macchie solari, che sono la caratteristica più particolare quando si osserva il Sole (ovvero, la fotosfera del Sole), sono formate da una regione più scura detta ombra e una attorno ad essa, detta penombra. Tutt’attorno si vedono dei grani, dovuti al ribollire (ovvero, alla convezione) del plasma nelle regioni indisturbate della fotosfera. Questo fenomeno prende il nome di “granulazione del Sole quieto”. Occasionalmente, all’interno dell’ombra delle macchie appaiono una o più strutture brillanti che separano più o meno nettamente l’ombra in più regioni scure, talvolta a partire dalla zona di Sole quieto al bordo della macchia stessa».
Com’è avvenuto nel caso della macchia a forma di cuore?
«Già. A queste strutture si dà il nome di ponte di luce (light bridge). Se invece osserviamo la cromosfera solare con opportuni filtri, troviamo regioni brillanti in corrispondenza delle aree attorno alle macchie in fotosfera, con la presenza di strutture allungate, filamentari, che sembrano come corde o trecce sospese (rope). Ad esse si dà il nome di filamenti (cromosferici). Ahinoi, per la poca fantasia degli scienziati, si chiamano filamenti (fotosferici) anche le strutture a fibrilla che formano le penombre attorno alle macchie. Di solito, per evitare confusione, questi ultimi vengono detti “filamenti di penombra” (penumbral filament)».
Una varietà notevole… e di che materiale sono fatte?
«Sono tutte strutture formate da plasma magnetizzato. Ecco perché, ad esempio, i filamenti (cromosferici) si chiamano flux rope: corde (o trecce) di flusso magnetico. Le differenze tra le varie strutture dipendono dalla densità del plasma e dalla configurazione magnetica. In generale, sono il risultato dell’interazione tra il campo magnetico del Sole e il plasma che forma la nostra stella, che per le particolari condizioni fisiche sono l’uno “congelato” all’altro: un cambiamento della configurazione magnetica determina una variazione nelle condizioni dinamiche del plasma, e viceversa».
La “treccia” che avete analizzato nel vostro studio risale all’aprile del 2016, e da allora è scomparsa, così come la macchia che l’ospitava. Come sorgono e quanto a lungo resistono, queste strutture che ci sta descrivendo?
«Le macchie solari si formano perché intensi campi magnetici, prodotti all’interno del Sole nella zona convettiva per effetto dinamo, emergendo sulla superficie sono capaci di inibire la convezione e diminuire il trasporto di energia termica verso l’esterno, raffreddando localmente le regioni che diventano ombre (circa 2000 gradi più fredde rispetto al Sole quieto, che ha 6000 gradi). La vita media delle macchie oscilla tra qualche giorno a qualche mese, e possono essere grandi svariate volte la Terra».
Ponti di luce e filamenti, invece?
«I light bridge sono più spesso osservati durante la fase di decadimento della “vita” di una macchia (che può durare giorni o settimane), e si formano perché la convezione “normale” pian piano riprende il sopravvento sul campo magnetico che aveva formato la macchia e che si sta diffondendo. La lunghezza di un light bridge può arrivare ad essere confrontabile col diametro della Terra. I filamenti (cromosferici), invece, si formano solitamente per riconnessione magnetica tra le arcate magnetiche dovute ai campi magnetici in emersione. Essi di solito appaiono più scuri perché sono più densi del plasma cromosferico circostante. Di solito connettono regioni magnetiche di polarità opposta, spesso lontane tra loro. Possono essere lunghi svariate volte il diametro della Terra. Possono restare sospesi anche per mesi (filamenti quiescenti) e infine dissolversi, o dare luogo a spettacolari eruzioni (filamenti eruttivi)».
Quali strumenti avete usato, per caratterizzare la treccia di plasma descritta nel vostro studio? E cos’avete visto?
«L’abbiamo osservata utilizzando le immagini del satellite Sdo, che osserva 24 ore su 24 il Sole sia in fotosfera che in cromosfera e corona (nell’ultravioletto, altrimenti inaccessibile da Terra). Quanto alla “barra equatoriale” dell’Inaf di Catania, è un telescopio dedicato alle osservazioni solari, con un rifrattore di diametro di 0.15 m e un filtro Lyot nell’H-alpha per le osservazioni della cromosfera, e con un altro rifrattore di diametro di 0.15 m per i disegni giornalieri di macchie e pori in fotosfera. Il light bridge oggetto del nostro studio è stato osservato per 5 giorni, poi la macchia è tramontata, cioè per effetto della rotazione del Sole attorno al suo asse la macchia non è stata più osservabile. In corrispondenza del light bridge, nell’ombra, le immagini raccolte con la barra equatoriale rivelano chiaramente la presenza di un filamento in cromosfera. È proprio questo che dà luogo alla forma a cuore».
E cos’ha di diverso, il vostro ponte di luce, da tutti gli altri osservati prima?
«Come spieghiamo nell’articolo, i light bridge di solito hanno struttura granulare, per effetto della convezione. Nel nostro caso, invece ha una struttura filamentare, nel senso di filamenti di penombra. In altri casi, al di fuori dalle macchie, si è visto che se un filamento (cromosferico) tocca la fotosfera, in corrispondenza si formano filamenti di penombra. Questa è la prima volta che si ha evidenza di un fenomeno similare all’interno di un’ombra. Inoltre, un light bridge è normalmente caratterizzato da un campo magnetico meno intenso che nell’ombra circostante, e con la stessa polarità. Se fosse di polarità opposta ad essa, infatti, non potrebbe essere una struttura a lungo in equilibrio. Invece, nel nostro caso, abbiamo una struttura con un intenso campo magnetico orizzontale e in larga parte di polarità opposta alla macchia. Ciò è compatibile con una struttura attorcigliata (con un forte twist) del filamento soprastante, che si adagia sull’ombra».
Marco Malaspina (Media INAF)
Fonte: Media INAF
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo “Observational Evidence of a Flux Rope within a Sunspot Umbra”, di Salvo L. Guglielmino, Paolo Romano e Francesca Zuccarello