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Domenico Lo Presti davanti al “telescopio” per muoni Mev e, sullo sfondo, la sommità del cratere nord-est dell’Etna. Mev è grande circa un metro cubo ed è costituito da tre piani di bacchette di polistirene – i rivelatori veri e propri. Crediti: D. Lo Presti.

L’emozione dev’essere stata simile a quella provata da Wilhelm Conrad Röntgen la sera del 22 dicembre 1895 osservando la prima radiografia medica a raggi X della storia: quella della mano sinistra di sua moglie Anna Bertha. Nel caso descritto il mese scorso su Scientific Reports da un team multidisciplinare guidato da Domenico Lo Presti del Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Catania, la “mano” è un vulcano. Per la precisione: la sommità del cratere nord-est dell’Etna. Le “ossa” sono il suo sistema interno di condotti. E al posto dei raggi X ci sono i muoni: «una sorta di grossi elettroni», spiega Lo Presti a Media Inaf, «che, muovendosi a velocità prossime a quella della luce, riescono non solo a raggiungere la superficie della Terra – tanto per farsi un’idea, ne passano costantemente circa cento al secondo per ogni metro quadro – ma anche ad attraversare grandi spessori». Spessori, appunto, come quello della sommità d’un vulcano.

Poiché anche per i muoni, proprio come avviene con i fotoni dei raggi X, la quantità di particelle che riesce ad arrivare al rivelatore dipende dalla densità di ciò che incontrano nel loro tragitto, ecco che andandone a misurare in più punti il flusso è possibile ricostruire un’immagine dell’interno del vulcano. Ed è esattamente ciò che hanno fatto Lo Presti e colleghi con il progetto Mev (Muography of Etna Volcano) fra l’agosto del 2017 e l’ottobre del 2019. «Non ininterrottamente, però», sottolinea Lo Presti, «ma solo nel periodo estivo – tre o quattro mesi all’anno. Lavoravamo a 3100 metri e nei mesi invernali il telescopio veniva sommerso da metri di neve e ghiaccio, rendendo quasi impossibile raggiungere queste quote per sgombrare i pannelli solari e consentire l’alimentazione del telescopio. Solo quando la neve si scioglieva, a fine giugno, potevamo andare a trovare il telescopio rifiorito dai ghiacci e ripristinarlo per una nuova campagna».

Solo nei mesi estivi, dunque, ma operativo 24 ore su 24. «Abbiamo progettato tutta l’elettronica al Dipartimento di fisica proprio per consumare il meno possibile: in tutto appena 10-15 watt, come una lampadina», dice Lo Presti a proposito del telescopio, il cui costo complessivo si aggira attorno ai 40mila euro. «Quindi con due pannelli fotovoltaici, che durante il giorno caricano anche le batterie, siamo in grado di lavorare anche tutta la notte. Dunque con duty cycle del cento per cento».

La muografia della sommità del cratere di nord-est dell’Etna prima (nel 2017, in alto) e dopo (nel 2018, in basso) il crollo del pavimento. La colorazione giallo-verde indica le zone a più bassa densità, quella verde-blu a densità più alta. Crediti: D. Lo Presti et al., Scientific Reports, 2020.

Ora va detto che la tecnica della tomografia muonica, a differenza dei raggi X di Röntgen, non è affatto inedita: si usa sin dagli anni Cinquanta. La novità sta in ciò che Lo Presti e colleghi – fra i quali fisici, ingegneri, vulcanologi e anche un astrofisico, Giovanni Bonanno dell’Inaf di Catania – hanno avuto l’opportunità di documentare: il crollo del pavimento del cratere, avvenuto nel 2018, dunque nell’arco dei tre anni della campagna osservativa. Ciò ha dato modo al team di scienziati catanesi di poter confrontare le “lastre” prima e dopo il “trauma”.

«Siamo stati fortunati», ammette Lo Presti. «Il primo anno il cratere di nord-est aveva un pavimento, c’erano fessure dalle quali usciva gas incandescente, ma cosa ci fosse sotto non lo sapeva nessuno. Quello che abbiamo visto, nel 2017, è che a una profondità di circa 150 metri c’era una grande cavità. Il fatto che si vedesse così nitidamente significava che c’era gas, non roccia. E proprio per effetto dei gas questa cavità tendeva ad allargarsi sempre di più». La conseguenza di quell’allargamento è stata appunto il collasso del pavimento del cratere, osservato nelle immagini del 2018. A seguito del collasso si è poi aperta una via di comunicazione tra il cratere centrale e il cratere di nord-est. «Si è creata un’apertura dalla quale fuoriusciva lava», prosegue Lo Presti, «ma essendo tutto sotterraneo non avrebbe potuto saperlo nessuno, se non fosse stato per le nostre rilevazioni».

Infine, nel giugno 2019, da una nuova bocca eruttiva comparsa proprio in corrispondenza di quelle fratture sotterranee ha avuto inizio l’attività eruttiva. Un esito che conferma le potenzialità della tomografia muonica non solo per la comprensione del sistema idraulico di un vulcano, ma anche per poter un giorno arrivare a formulare previsioni a medio termine di una possibile eruzione, con anticipo di settimane o mesi.

Marco Malaspina (Media INAF)

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